Lo dicono e si sfregano le mani. «L’appuntamento è a Gerusalemme Est, università di al Quds, il 10 aprile. Venite e vedrete». Fremono, ma più di tanto non cedono. «Diciamo che sarà un’iniziativa di pace, ma non l’ennesimo bla bla. Siamo tutti ex soldati, siamo israeliani e palestinesi per anni membri di unità combattenti di élite. Abbiamo deciso di lasciare le armi per incontrarci e dialogare. Ma non abbiamo smesso di combattere. Perché combattiamo ancora, ma tutti insieme. Lottiamo per la pace, perché in Medio Oriente si smetta di uccidersi, per la fine dell’occupazione e del terrorismo. Perché israeliani e palestinesi possano vivere fianco a fianco in due Stati distinti e dai confini sicuri. Non fatemi dire di più: venite e vedrete».
Bassam, Sulaiman, Zohar e Elazar sono seduti uno accanto all’altro, adesso. Si scambiano pacche sulle spalle, sussurri e occhiate complici. A destare curiosità e stupore nella platea di europarlamentari, accorsi su invito della presidente della Commissione Sviluppo dell’europarlamento Luisa Morgantini che ha promosso l’iniziativa e aiutato il gruppo sin dall’inizio, non è il fatto che due di loro siano israeliani e gli altri due palestinesi. Fino a poco tempo fa questi ragazzi si sparavano addosso. E non in senso metaforico. Proiettili, granate, sparate per uccidere e per uccidersi. Due nelle unità speciali di Tsahal, l’esercito israeliano. E gli altri due nelle formazioni combattenti palestinesi. Prima.
Ora sono quattro refusnik, ma come si diceva non hanno smesso di combattere. «Siamo combattenti per la pace - spiega Sulaiman rivolto - perché abbiamo tutti assaporato la tragedia amara della guerra. La differenza tra noi e gli altri gruppi di pacifisti e refusnik è che siamo un gruppo unico che ha deciso di lottare per la fine dell'occupazione, dell’umiliazione dei civili e della follia del terrorismo. Lasciatemi aggiungere una cosa: sono orgoglioso di essere qui e di poter chiamare i giovani al mio fianco amici veri».
Zahar Shapira era un comandante di Tsahal, per 15 anni capo di un’unità di commando dedicata alle operazioni speciali nei territori palestinesi. Ho sempre pensato di difendere il mio Paese, agivo nella convinzione di aiutare il mio popolo. Poi ho capito che il persistere dell’occupazione era immorale e costituiva il pericolo più grande per per la sopravvivenza di Israele. Un giorno sono andato dal mio comandante, gli ho detto che non avrei più umiliato nessuno, che avrei servito nell’esercito del mio Paese solo all’interno dei confini di Israele e mai più Palestina. E' stato difficile, ho rotto un tabú personale e sociale». Anche Zohar, come del resto il palestinese Bassam, era un militare, nel suo caso con i paracadutisti dispiegati per anni nel Sud del Libano. «Quando ho deciso di smettere ho pensato che non avrei più passato il confine». E invece, dopo qualche tempo, quel valico l’avrebbe attraversato di nuovo. Stavolta in abiti civili, senza armi. «Ci vuole molto più coraggio. Credevo che avrei trovato un partner - incalza Bassam - invece ne ho trovati più di cinquanta» Se per Elazar e Zohar varcare il confine vuol dire violare una legge israeliana, per i palestinesti il compito è addirittura improbo. «Ci siamo visti a Beit Jalla, alle porte di Gerusalemme, e abbiamo iniziato a lavorare trovando non un singolo punto in comune, ma un’intera piattaforma da promuovere». La vittoria di Hamas, per Sulaiman e Bassam, è un ostacolo in più in una situazione già drammatica. «Non è semplice far passare le nostre idee in questo momento. In privato tanti sono d’accordo, ma in pubblico è diverso. Sappiamo per certo che la maggioranza dei due popoli vuole un futuro per far crescere i propri figli. Hamas ha vinto perché le formazioni nazionaliste non hanno ottenuto alcun risultato politico da Israele e perché la corruzione è dilagata sotto gli occhi di tutti, mentre Hamas si è presentata come la forza che ha costretto Israele al ritiro da Gaza e con un programma contro la corruzione e il malcostume». «L’errore più grande - stavolta è Luisa Morgantini che parla - sarebbe quello di isolare i palestinesi a causa di Hamas. Non dimentichiamo che Hamas ha dato prove di maturità sia rispettando la tregua da oltre un anno che partecipando ad un processo politico interno all’Anp. Teniamo alta la pressione perché riconosca Israele - spiega l’europarlamentare del Prc- ma facciamo lo stesso sul governo israeliano perché riconosca lo Stato di Palestina e ponga fine all’occupazione».
Quanto a loro, il passo verso il riconoscimento dell’altro l’hanno già fatto: «E’ stato un piacere scoprirci, c’è un partner - chiosano ricalcando lo slogan dell’accordo di Ginevra - un partner che prima era il mio nemico» il 10 aprile a Gerusalemme Est ne sapremo di più. Una cosa comunque è certa, questi ex soldati, queste persone a cui il Medio Oriente deve probabilmente gran parte della sua sopravvivenza (fin qui), hanno smesso da un pezzo di bruciare le bandiere del «nemico». L’ex paracadutista Elazar ci tiene a sottolinearlo: «Non si puó essere pro-israeliani senza essere pro-palestinesi, non si puó essere anti-palestinesi senza diventare automaticamente anti-isrealiani. Non mi piace la gente che dice di essere filo-israeliana oppure filo-palestinese. I nostri destini sono uniti, se perdiamo perderemo entrambi e la vittoria degli uni vuol dire esattamente la vittoria degli altri. Basta guardare una cartina del Medio Oriente per comprendere che non esiste la vittoria di una parte sola. Se qualcuno non ci riesce continuando a strillare seminando odio vuol dire che è ipocrita, in malafede, oppure ignorante o semplicemente idiota». Chiaro.
Ivan Bonfanti da Liberazione 23.02.06
Dal sito dei giovani comunisti nazionale.
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